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Le sacerdotesse della Luna

 C’è un filo sottile che da sempre lega in forma privilegiata la donna alla Luna. Un filo fatto di mistero, magia e non solo. Un filo che alcune donne in particolare, durante il periodo inca, rafforzavano attraverso specifici rituali notturni di connessione. Erano le custodi delle energie lunari. Erano, le sacerdotesse della Luna.

Dopo aver visitato Shinkal, un’antica città incaica della Catamarca, scopro che anche gli inca, come molti altri popoli ancestrali, praticavano il culto lunare. Decido allora di saperne di più a proposito e dopo alcune ricerche trovo diverso materiale interessante sull’argomento, tra cui un bell’articolo del professor Guillermo Llerena Cano. Nella sua pubblicazione, lo studioso racconta che nel Perù incaico, il culto alla Mama Quilla, alla Madre Luna, sebbene partecipato e rispettato da tutti, era speciale prerogativa delle donne. Ed una classe particolare di esse, le sacerdotesse della Luna, si dedicava a celebrare e tramandare nel tempo particolari rituali di connessione lunare.

Erano esperte curandere e donne molto sagge. Durante la cerimonia della Quillamama Raymi, camminavano silenziose nella notte, accendevano torce, bruciavano essenze profumate e suonavano sottili lamine d’argento per attirare l’attenzione della Luna, scrive Llerena Cano nel suo articolo. Indossavano lunghi vestiti grigi e mantelli dello stesso colore, in testa portavano un copricapo di lana bianca e indossavano orecchini d’argento che emettevano un suono metallico che avvisava gli uomini della loro presenza, perché a questi ultimi era proibito guardarle. Grazie a questa capacità di connessione con la Luna, aggiunge lo studioso, le sacerdotesse, con i loro oracoli, erano in grado di annunciare eventi futuri.

Ancora oggi, in Perù, è possibile visitare il tempio lunare di Quillarumiyoc (Pietra della Luna). Un luogo sacro poco conosciuto, fortunatamente salvatosi dalla furia distruttiva che i colonizzatori spagnoli riversarono contro tutto ciò che considerarono idolatrico. In luoghi come quello di Quillarumiyoc, durante appositi riti lunari, scrive infine Llerena Cano, la donna riceveva dalla Luna i segreti della magia, la bellezza, l’incanto, la forza dell’invisibile, la conoscenza dei cicli e delle fasi di fertilità e la saggezza femminile.

Stefano Lioni

(Immagine illustrativa: Raquel Temporal)

Il ritorno dell’Inka

Dopo una forte chiamata interiore, Elizabeth B. Jenkins lascia il suo dottorato di ricerca, il suo fidanzato, vende tutto e va a vivere in Perù. Lì incontra un maestro, Juan Nuñez del Prado, e inizia il suo viaggio di iniziazione e scoperta che la porterà ad approfondire la conoscenza di se stessa attraverso la tradizione spirituale andina.

La storia della Jenkins mi ha accompagnato in questi giorni di cammino, attraverso la lettura del suo stesso libro “Il ritorno dell’Inka”, libro che l’autrice scrisse al termine di un percorso spirituale in Perù. Forse, più di qualsiasi altra cosa, nelle Ande stavo imparando che la spiritualità e il gioco vanno insieme. Per la gente andina, gli atti più religiosi non erano questioni serie e nemmeno cupe, erano celebrazioni di allegria, scrive la Jenkins quando commenta in particolare il lato ludico degli ukukus, una sorta di pagliacci sacri che controllano e animano il pellegrinaggio della Festa di Q’ollorit’i. E tale festa, spiega invece il maestro della Jenkins, è collegata alla costellazione delle pleiadi, le quali possiedono una grande importanza esoterica ed energetica. Per i maestri andini, esse rappresentano i sette livelli di sviluppo psichico. Durante la Festa del Santuario di Q’ollorit’i, le pleiadi fungono da unificatrici di campi energetici. Negli ultimi anni, il numero di pellegrini al Santuario è aumentato in maniera incredibile. Sempre di più sono le persone attratte da quel posto. È possibile che non lo sappiano, però ci vanno perché stanno attendendo un eletto, un maestro di settimo livello ancora non rivelato.

Visiterò il Perù una volta terminato il cammino in Argentina, che al momento sento prioritario, ma libri come questo non fanno che amplificare il mio desiderio di visitare questa terra ricca di cultura sciamanica, una terra nella quale, sempre secondo le parole del maestro della Jenkins, si crede che al momento del concepimento, nel nuovo individuo si uniscono tre poteri differenti: il potere della materia, il potere dell’anima individuale e il potere eterno dello spirito. Poteri che si concentrano nella fronte, in un punto che si chiude crescendo ma che da piccoli è ancora molto aperto e dal quale entra molta energia viva o luce bianca (sembra riferirsi alla zona del terzo occhio). Nell’opera della Jenkins, nel capitolo “Il tempio della morte”, Juan Nuñez del Prado effettua un rituale di riapertura di tale porta cosmica attraverso l’utilizzo di alcune pietre speciali.

Gli spiriti delle montagne

Il libro, che riporta anche il significato delle profezie andine dei cicli di cambiamento ed evoluzione, parlando dell’era del Taripay Pacha, ossia dell’epoca della trasformazione, del tempo di incontrarsi nuovamente con se stessi, è davvero pieno di passi interessanti capaci di aiutare a decifrare con maggior chiarezza lo sviluppo della coscienza collettiva umana e allo stesso tempo offrire spunti di riflessione utili a comprendere meglio la tradizione spirituale andina, la quale, come scrive la Jenkins, sviluppò un modo molto differente da quello occidentale di vedere, interpretare e lavorare con il sistema energetico umano.

Stefano Lioni

(Foto principale: hatunkarpay.org)

Le mummie di Inca Cueva

In alcune grotte della provincia argentina di Jujuy, nel 1936, un archeologo argentino, Justiniano Torres Aparicio, riesumò tre mummie, che secondo una recente datazione al radiocarbonio effettuata dal Radiocarbon Laboratory dell’Istituto Politecnico Federale di Zurigo, risalirebbero, con altissima probabilità, a ben 6000 anni fa. Età questa che le renderebbe di fatto tra le mummie naturali più antiche del mondo.

Oltre al possibile primato di antichità, tali mummie, che ho potuto vedere esposte al Museo Archeologico di Humahuaca, possiedono altre caratteristiche di particolare interesse. Caratteristiche che lasciano spazio a diverse interpretazioni, ufficiali e non. Il cranio di una di esse, come altri singoli crani trovati nella zona di Jujuy, risulta avere una forma particolarmente allungata, con proporzioni ben differenti da quelle tipiche di un cranio normale. Anche i singoli crani allungati ritrovati, che ricordano quelli peruviani di Paracas, ho potuto vederli direttamente e fotografarli, nel Museo di Humahuaca prima, e a La Quiaca poi.

Una delle interpretazioni più accreditate in ambito accademico che tenta di spiegare l’anomalia dei crani è che la civiltà alla quale appartenevano tali individui, utilizzasse fasce molto strette alla testa, poste sin dalla giovane età, proprio nell’intento di deformazione quotidiana del cranio. Tra le varie ipotesi che tentano invece di spiegare le ragioni di tale pratica deformante, c’è quella che chiamerebbe in causa antichi canoni di bellezza. Infatti, la testa allungata in quella maniera, avrebbe rappresentato per quelle antiche società, un carattere estetico considerato bello, in quanto simbolo di intelligenza e fierezza. A provare ad aggiungere altre interpretazioni, ci hanno provato anche teorici alternativi che chiamerebbero in causa eventuali contatti che queste antiche popolazioni avrebbero avuto con civiltà aliene. Secondo tali interpretazioni non ufficiali infatti, il cranio allungato era considerato bello proprio perché simile a quello di esseri dalle teste lunghe, ritenuti divinità provenienti dallo spazio.
Altre caratteristiche peculiari delle mummie di Inca Cueva, sono la notevole altezza degli individui ritrovati (vistosamente sopra la media tipica delle ancestrali popolazioni andine) e l’estrema perfezione del copricapo di una delle mummie. Dettagli che, se da un lato alimentano teorie alternative, dall’altro vengono facilmente interpretati da antropologi e archeologi i quali spiegano l’anomalia dell’altezza come conseguenza di un’ondata migratoria in quelle zone di popoli amazzonici più alti, con caratteristiche genetiche quindi diverse da quelle andine, e attribuiscono la perfezione del copricapo, ad una possibile, per quanto raffinata dote artistica di quell’antichissimo gruppo etnico.

Le mummie di Inca Cueva, che nel rispetto della loro categoria archeologica, non potevano che portarsi con sé un pizzico di mistero, furono rinveute in una bellissima zona naturalistica, all’interno di una serie di grotte, tra profonde valli e canyon, a circa due ore di cammino dal Rio Grande. Quelle stesse grotte, grazie ad una serie di affascinanti pitture rupestri in esse presenti, rappresentano oggi una delle zone archeologiche più interessanti dell’intera Argentina.

Stefano Lioni